Davide Nanni, l’incredibile successo dello chef che cucina tra i boschi

Davide Nanni è un giovane chef, popolarissimo sui social, che ha inventato una nuova filosofia di cucina: preparare dei piatti in maniera wild, selvaggia, tra i boschi del suo Abruzzo. 

“La condivisione ci rende vivi, perché dobbiamo essere gelosi delle nostre ricette? Se una mia ricetta esce meglio a qualcun altro, non posso che essere contento”. La gioia che trasmette questo ragazzo giovane, ma così perbene e gentile è pari solo alla bontà dei suoi piatti. Ecco perché il mondo della ristorazione dovrebbe imparare a essere meno rigido e ad accogliere persone che come Davide sono felici, non solo di cucinare, ma anche di concepire un circolo di idee attorno a ciò che crea.

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Davide Nanni ha 31 anni e cucina praticamente da sempre; nonostante la giovane età ha già accumulato diverse esperienze sia in Italia sia all’estero, eppure è tornando a Castrovalva, un paesino di soli 12 abitanti in provincia de L’Aquila, che ha trovato la sua serenità. Come? Con una cucina “wild”, selvaggia, fatta di piatti semplici realizzati tra le sue montagne. Star dei social – complessivamente tra Instagram, Facebook e Tik Tok conta quasi 210mila followers – non ha dimenticato appunto i luoghi che, assieme al nonno, lo hanno cresciuto.
Ecco che cosa ci ha raccontato.

Chef Davide Nanni: “Sono sempre stato me stesso solo il mezzo alla natura”

Parlaci un po’ di te.

Fino al 1997, quando avevo sei anni, sono rimasto a Roma, ma tutti i week end andavamo a trovare i miei nonni che avevano un’azienda agricola in Abruzzo. Passavo il tempo con mio nonno in campagna o con le mie nonne a fare la pasta all’uovo e il primo approccio con la cucina ce l’ho avuto con loro. I miei genitori si sono poi appunto stufati della vita romana e – attraverso della agevolazioni statali – hanno aperto la locanda “Nido d’aquila” a Castrovalva, in provincia de L’Aquila. Quando hanno aperto il ristorante mia mamma e i miei nonni facevano 15-20 chili di pasta all’uovo ogni due giorni e io passavo sempre le giornate con loro a fare la pasta. Finite le medie ho deciso di andare all’alberghiero e appena mi sono diplomato sono partito per Londra, dove ho lavorato per Giorgio Locatelli. Ci sono stato quasi 6 mesi, anche se come prima esperienza un ristorante stellato è stato molto difficile, perché nella cucina ci sono molte gerarchie e io ero molto giovane.

Com’è stata questa esperienza con Locatelli?

E’ stata  appunto complicata perché sono sempre stato un ragazzo abbastanza semplice, anzi sono ipersensibile. Arrivare in una cucina così grande con 16 cuochi, in un settore che ai tempi era più rigido di oggi, non mi ha fatto sentire molto a mio agio. Anzi, avevo quasi deciso di smettere di fare il cuoco: sono tornato in Italia e sono stato 4 mesi in stand-by perché mi dicevo “se il lavoro del cuoco è questo, io non so se ce la faccio”. Invece poi ho cominciato a lavorare a Roma al ristorante “Quattro Fiumi” e poi “Tre Scalini” in cui ho trovato uno chef che aveva fatto la mia stessa scuola e che mi ha preso sotto la sua ala: insegnandomi i suoi trucchi in neanche due mesi sono diventato capo partita dei secondi e facevamo quasi 200 persone a servizio. Ogni volta che diventavo più bravo dello chef – cosa che è accaduta spesso solo perché ascoltavo i consigli che mi davano, non certo per farmi bello –  pur di non rubare il posto, mi licenziavo, perché dovevo tanto a chi mi aveva insegnato.

Raccontaci di J ‘so wild e della tua filosofia di cucina.

Dopo essere stato al ristorante “Mezzo” per quasi due anni, esperienza fondamentale per la mia carriera, sono diventato per la prima volta chef di “Casa Alice”, dove ho lavorato per tre anni e ho formato la mia prima squadra. Dopodiché – siccome il lavoro dello chef spesso non viene valorizzato a livello economico e dopo essermi lasciato con la mia fidanzata – ho aperto, spronato dai miei ragazzi, una pagina Facebook e Instagram. Loro mi dicevano di postare le ricette che insegnavo così non pensavo alla mia vita privata e dopo neanche un mese avevo già 5000 followers. Più o meno nello stesso periodo ho avuto una proposta dalla Florida e sono partito, visto che mi avevano negato un piccolo aumento che avevo chiesto. Ho rinunciato a parte del mio stipendio per portare uno dei ragazzi che lavorava con me a Roma perché mi ha sempre rispettato e tutt’ora, nonostante sia più giovane di me, mi chiama “chef”.

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Io ero executive chef di due ristoranti italiani ed è proprio qui che è nato J ‘so wild, cioè quando la titolare del ristorante mi ha chiesto di cucinare una amatriciana con le polpette, un piatto importantissimo per me perché lo cucinavo a 12 anni assieme al mio migliore amico e a suo fratello. Nonostante percepissi un ottimo stipendio, le ho risposto: “Ma che sei fuori? Se vuoi farmi sporcare un piatto così importante per la cucina italiana e romana, dimmelo che me ne torno a casa”. Quando i camerieri mi hanno chiesto perché volevo tornare in Italia, io ho risposto: “Because I’m wild” e così due settimane dopo – in pieno periodo Covid – sono tornato in Italia.
Una volta rientrato sono stato un po’ di tempo in stand-by, anche per via della pandemia, fino a che non ho deciso l’anno scorso di provare a proporre un menù degustazione nell’agriturismo dei miei genitori, in cui era chef mia madre. Lei ha sempre fatto menù fisso, ma una cucina più semplice rispetto alla mia, perciò ho realizzato con prodotti a km 0 delle versioni della tradizione un pochino più innovative. Abbiamo avuto un ottimo riscontro, anche se qualche cliente l’abbiamo perso perché abbiamo alzato leggermente i prezzi. Ne ho guadagnati però tantissimi che vengono da fuori, che anzi non si aspettavano di pagare così poco – circa 38 euro – dei piatti così.
Tornando a J ‘so wild, c’è un grande concetto dietro: l’unico posto in cui mi riuscivo a sentire me stesso e tranquillo era quando mio nonno mi portava in campagna con lui. Da lì è nata tutta la filosofia del contatto con la natura e del sentirsi liberi, tanto da ricreare nell’agriturismo dei piatti che si possono mangiare con le mani; l’esperienza che voglio regalare ai miei clienti è di essere un po’ wild pure loro.

Visto il tuo successo sui social, ti consideri un po’ un ambasciatore della cucina abruzzese nel mondo?

Mi piacerebbe dire di sì, anche se ci sono chef più bravi di me, come Vito Romito, che ha tre stelle Michelin. Tra i giovani sono forse quello che crede nel territorio, per valorizzare questi paesini che stanno andando persi. Per esempio sono venuti a mangiare da me da Bari con il pullman e si sono meravigliati per il fatto che esiste un posto così bello, arroccato su questi monti.
Una cosa che voglio fare con i miei video è anche lanciare un messaggio ai ragazzi della mia età: vedo molta superiorità, si pensa solo al bello, al comodo, invece io cucinando in ginocchio per esempio voglio far capire che non è la comodità che ci rende liberi.

Tu cosa ne pensi delle recenti polemiche e dichiarazioni di alcuni tuoi colleghi sul fatto che molti giovani non vogliono lavorare nella ristorazione per via degli orari e dell’impegno consistente? Che consigli daresti a chi invece vuole farlo questo mestiere?

Sono cambiate le cose, c’è molto meno sacrificio rispetto a prima, però capisco che ci sono alcuni ristoranti e alcuni chef che chiedono degli orari ancora oggi molto molto pesanti a stipendi bassi: se proponi di lavorare 14 ore al giorno a 1300 euro, automaticamente credo che un ragazzo di oggi pensi “mi fai lavorare tanto, ma voglio la mia libertà”. Io adotto un’altra filosofia: anche io ho lavorato 15 ore al giorno pagato poco, stavo male, ma lo facevo perché volevo arrivare. Cerco appunto di motivare i miei ragazzi pagandoli il giusto: ho dato degli stipendi al mio aiuto cuoco che mi sognavo quando avevo la sua età, però vedo il suo entusiasmo nel venire a lavorare. Poi c’è un ambiente sano nella mia cucina: sono io il primo burlone, il primo che scherza…e poi a fine giornata ti pago quando meriti così quando vieni a lavorare sei contento. Se uno si lamenta per i giovani che non vogliono lavorare deve farsi anche un esame di coscienza.

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Hai mai pensato, visto appunto il tuo seguito, ad un programma di cucina in tv?

Proprio qualche settimana dopo aver aperto il profilo Instagram, mi ha contattato una redattrice di Masterchef, senza dirmi però di quale programma si trattasse. Poi quando l’ho capito, ho dovuto dire di no perché ho lavorato con Locatelli, visto che non sono un cuoco amatoriale.
Come ospite invece mi piacerebbe partecipare per condividere la mia filosofia di vita semplice.

La ricetta di cui sei più orgoglioso.

Si chiama Pasta du pecural: è una rivisitazione di una pasta che mi faceva mio nonno prima di andare a pascolare le pecore. Si parte da un soffritto con abbondante aglio, poi metteva a cuocere la pasta insieme alle patate; scolava la pasta nel soffritto, metteva il peperoncino  e mantecava il tutto con tantissimo pecorino. Questa pasta l’ho rivisitata negli anni, facendo prima di tutto la pasta fatta in casa – le pappardelle – con patate, crumble di salsiccia essiccata e pecorino. L’ho cucinata anche nel bosco e ha avuto addirittura oltre un milione di visualizzazioni.

Lo che Nanni con la nostra Sonja Tullli

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